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A quasi un anno dall’inizio del Giufà Project, ho la tentazione di guardarmi indietro per osservare cosa
abbiamo fatto fin qui, quante persone sono state “toccate” dalle sue storie, a quanti ho raccontato “Giufà
tirati la porta” e in quante lingue.
Non c’è pausa durante questo viaggio, Giufà lo sa bene, e così anche i pochi giorni che separano la fine di
un laboratorio dall’inizio di un nuovo spettacolo mi valgono come momento di riflessione.
Cosa è stato fin qui? Cosa sarà poi?
Anche solo ad elencarle, le attività di questo progetto, posso creare una nuova storia, una mappa
geografica di un nuovo viaggio: c’è l’Italia, con Cetona, Sarteano, Salve, Firenze, Arezzo; c’è il Portogallo,
con Setùbal; c’è l’Inghilterra, con Brighton, Glyndebourne e Battle.
E questi sono solamente i luoghi direttamente coinvolti!
A considerare i luoghi di provenienza degli organizzatori, degli artisti, dei i partecipanti, di chi ha ascoltato le
storie e di chi le ha narrate, la cartina geografica si allarga e arriva a coprire quasi tutti i continenti.
Le mille storie di Giufà sono state raccontate in italiano, in siciliano e in salentino, in inglese, portoghese,
arabo, curdo, rumeno… e ovunque ci siamo intesi in nuove lingue, miste a musica, disegni e gesti.
Di ritorno dall’ultimo laboratorio, penso che è straordinario vedere come le persone si aprano a queste
semplici storie, e le riconoscano immediatamente come radici comuni: la porta rossa di Giufà è veramente
barca e ponte, e galleggiando sui diversi mari, permette agli uomini di aggrapparsi a ciò che sono stati, e
scoprire cosa saranno…
Ma ecco che sta per iniziare una nuova parte del viaggio, non c’è tempo per altri pensieri: riprendo la porta
rossa, me la carico “ ‘n coddu” e ricomincio la storia.
“Na vòta, a matri di Giufà…”
Sol per un giorno, poi riparte.
La sopravvivenza è la sola sua arte.